Il discorso dialettico del ‘gene’ come unità dell’ereditarietà dedotta dal fenotipo, che sia una variabile interveniente o un costrutto ipotetico, sembrava essere risolto con la presentazione del modello molecolare del DNA: il gene era ridotto a una sequenza di DNA che viene trascritta in RNA che viene tradotto in un polipeptide; i polipeptidi possono piegarsi in proteine che sono coinvolte nel metabolismo cellulare e nella struttura, e quindi nella funzione. Questo percorso si è rivelato più sconcertante quanto più la regolazione dei prodotti e delle funzioni è stata scoperta nei contesti dei sistemi cellulari integrati. I filosofi che lottavano per definire un concetto unificato di gene come entità di base della genetica (molecolare) si confrontarono con coloro che suggerivano diversi “geni” secondo i quadri concettuali degli sperimentatori. I ricercatori consideravano sempre più i geni de facto come termini generici per descrivere i loro dati empirici, e con il miglioramento delle capacità di sequenziamento del DNA queste entità erano di regola sequenze nucleotidiche bottom-up che determinano funzioni. Solo recentemente gli empiristi sono tornati a discutere di considerazioni concettuali, comprese le definizioni top-down delle unità di funzione che attraverso meccanismi cellulari selezionano le sequenze di DNA che comprendono le “impronte genomiche” delle entità funzionali.

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